27 Settembre 2023

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Stan Wawrinka: campione di transizione

Quella consegnata agli archivi il 7 giugno scorso è stata un’edizione degli Open di Francia destinata a far parlare di sé per qualche lustro, non tanto e non solo per l’interruzione dell’egemonia dello spagnolo Rafa Nadal sulla terra rossa, ma soprattutto per il profilo tecnico (e psicologico) del suo successore nell’albo d’oro del torneo: lo svizzero Stan Wawrinka, che ha avuto la meglio sul numero uno al mondo Novak Đoković. Un dato su tutti ci dice della particolarità dell’evento: quello del Roland Garros 2015 è il quarto torneo del Grande Slam non vinto da uno dei Fab Four (Federer, Nadal, Đoković e Murray) negli ultimi dieci anni, dopo le imprese di Juan Martin del Potro e Marin Čilić agli US Open, rispettivamente nel 2009 e nel 2014, e dello stesso Wawrinka agli Australian Open 2014.

Ad impressionare più dell’esito, tuttavia, è stato il metodo con cui l’elvetico ha affrontato il cammino trionfale, culminato col capolavoro in finale sul Philippe Chatrier. Due settimane a tutto braccio, trascorse a polverizzare avversari e preconcetti volta dopo volta, sciorinando un gioco sorprendentemente continuo per quanto era risicato il margine d’errore nella sua realizzazione, su una superficie come la terra battuta che come nessun’altra imbratta la tela dei pittori del gioco e premia i “regolaristi” più che i giocatori d’attacco. Il nativo di Losanna ha rappresentato il perfetto connubio tra la potenza moderna e il fascino nostalgico del suo rovescio eseguito a una mano, vero colpo chiave del suo successo, portato ad una dimensione offensiva di cui non si ha memoria: è risaputo che per chi possiede tale rovescio su una superficie lenta lo usa prevalentemente a fini di manovra, in attesa di girarsi sul dritto per fare il punto, più che in spinta. Il movimento del rovescio di Wawrinka prevede un’anticipata rotazione del busto rispetto all’impatto con la pallina, in modo da dare spazio e tempo al braccio di “passare” e generare tanta velocità, a differenza di molti altri interpreti del colpo che lavorano quasi esclusivamente con l’arto, più eleganti e solidi ma meno penetranti. La controindicazione consiste nella scelta di tempo nella ricerca della pallina, molto più difficile da calcolare. Altra peculiarità è la capacità di nascondere fino all’ultimo le intenzioni di colpire lungolinea, difatti sia la posizione dei piedi che il movimento della racchetta non variano tra l’incrociato e il verticale, mettendo in grossa difficoltà tattica l’avversario, impossibilitato a leggere in tempo la direzione del colpo e costretto a retrocedere di quel metro decisivo nella battaglia per il territorio e a modificare la posizione standard in campo, ovvero decentrato verso sinistra per spostarsi sul dritto (per i destrorsi, i mancini meriterebbero discorso a parte). Tutto questo, accompagnato da un dritto ormai affidabile, gli consente di avere due colpi definitivi in entrambe le direttrici, la qual cosa provoca nel contendente la sensazione di ritrovarsi in mezzo ad una tempesta.

Questa tattica sottende la ferma volontà di essere arbitro della propria sorte, condizione intellettuale sempre più rara nello sport (e non solo). La perfetta traduzione di questo precetto è stata data nella finale del torneo, laddove il buon Stan si è ritrovato ad affrontare il dominatore del circuito, quel Novak Đoković che solo in un’occasione quest’anno era arrivato alla stretta di mano da sconfitto. Come si abbatte un muro di gomma? Di certo, non da solo. Restare lì a vedere cosa avrebbe fatto il fenomeno per poi campare con quello che lasciava per strada non poteva accontentare l’elvetico, che già da quando non era ritenuto altro che “quello bravino che viene dal paese di Roger Federer” più volte aveva impensierito il serbo. Morale della storia: colata dei vincenti (60!) sul numero uno in soli quattro set e muro demolito, un muro che, per onor di cronaca, presentava qualche crepa figlia del match-maratona contro Murray in semifinale a testimonianza che anche Nole è umano, anche se non lo dà a vedere.

In conclusione, tanti saluti agli scettici e al cono d’ombra del regale Roger, peraltro sconfitto durante il tragitto. E una domanda: c’è un nuovo sceriffo in città? La risposta è tendente al ”no”, per due motivi: il primo è rappresentato dall’età, Wawrinka ha già 30 anni, più vecchio di quelli a cui dovrebbe strappare lo scettro, e ancora pochi anni di carriera davanti; il secondo è lo stile di gioco che per essere attuato implica che tutto combaci alla perfezione, sia dal punto di vista atletico sia nell’aspetto mentale e questo, nel medio-lungo periodo, rappresenta uno scoglio invalicabile. Indubbiamente quella di “Stanimal” è una figura che fa bene al tennis, genuina nel gioco e nelle dichiarazioni spesso pungenti, che può fungere da ponte tra la passata/presente e la futura generazione di campioni.

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