Mentre nelle sale imperversa il fenomeno It, per la settimana di Halloween c’è stato un gradito ritorno al cinema. Un film diventato un classico di tutto rispetto – nonostante alcune, ma poche, voci fuori dal coro, come quella recente di David Cronenberg -, che andrebbe proiettato più spesso in sala, unico habitat ideale per un capolavoro che ha attraversato i decenni e conquistato cinefili di ogni generazione: Shining di Stanley Kubrick, nella sua versione europea di 119 minuti. L’horror di Kubrick è, a detta di molti critici, il più grande film dell’orrore mai realizzato, e tra i più terrificanti in assoluto (la scena delle gemelle e del loro omicidio visto dal bambino è da sempre in cima alle liste e alle top ten delle scene più paurose al cinema).
Eppure dargli un’etichetta, o ascrivere Shining a un genere, sembra quasi riduttivo per un cineasta che ha riscritto l’estetica cinematografica del Novecento, spaziando tra i generi senza specializzarsi, da vero maestro. Nei film horror abbondano omicidi, spargimenti di sangue mentre nell’opera più sottovalutata di Kubrick figura un solo assassinio (quello del cuoco nero con la luccicanza, venuto a salvare il bambino) e il sangue esce solo dal mitico ascensore dell’Overlook Hotel, ma è una visione, così come quella delle bambine fatte a pezzi, e alternate nel montaggio al primissimo piano sugli occhi sgranati di Danny Torrance.
Questo perché Shining è uno psico thriller, un horror psicologico tutt’altro che canonico, che pesca nell’inconscio collettivo per restare impresso nel nostro, alimentando magari notti insonni. C’è qualcuno che lo ha definito addirittura un film sui genocidi e sullo sterminio degli indiani d’America, e per esteso sulla Shoah: teorie supportate da un documentario di qualche anno fa dal titolo Room 237, passato a Cannes, che si basa proprio sulle interpretazioni freudiane e storiche insite nelle molteplici chiavi di lettura del film.
La storia è nota e molto semplice: una famigliola decide di trascorrere il terribile inverno del Colorado nell’albergo della cui manutenzione dovrà occuparsi il padre (un maiuscolo Jack Nicholson, mai così sopra le righe nella follia omicida di Jack Torrance). La permanenza nella struttura, costruita sui resti di un antico cimitero indiano, sarà costellata da allucinazioni, visioni di sangue e morte, serate con i fantasmi della Gold Room, chiacchierate con baristi e camerieri ambigui, scontri tra marito e moglie e il misterioso ingresso di Danny nella stanza 237, vera chiave di volta dell’intera narrazione.
Da lì infatti sarà una vera discesa agli inferi per il piccolo e per sua madre (Shelley Duval, costretta a ripetere la scena della camminata all’indietro per un numero considerevole di ciak, come solo Kubrick poteva permettersi). Fino all’epilogo finale, con la corsa nel labirinto che rende il racconto il primo film epico del genere horror. Impossibile non riconoscere la tragedia di Edipo che uccide il padre e il mito di Teseo e del Minotauro, amplificato dai versi e dagli sguardi ferini di Jack e da un manifesto nella sala dei giochi dell’albergo che ritrae uno sciatore con postura e silhouette da toro.
Un incubo lungo due ore che è anche riflessione sulle vittime della Storia, che siano esse gli indios (l’hotel è tappezzato di simboli e motivi indiani, nonché da apparizioni e scomparse improvvise di tappeti, sedie e oggetti, da brava casa infestata), o gli israeliti d’Europa. E Kubrick, che voleva dedicare loro un film sull’Olocausto mai realizzato poi, “The Aryan Papers”, non a caso era ebreo.