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NBA: i San Antonio Spurs battono gli Oklahoma City Thunder 2-0

Intendiamoci: tra le innumerevoli sfumature semantiche appartenenti alla sopracitata patologia popolare, nessuna centra la definizione che, con un po’ di fantasia, può scaturire dal contesto NBA. Non la nostalgia di paesaggi incontaminati, tantomeno un fantomatico, viscerale senso di appartenenza a quel territorio radicato nei protagonisti afro della lega, bensì il rimpianto che attanaglia i difensori per non avere un lungo da Brazzaville, Congo a guardar loro le spalle e a difendere il canestro dalle folate offensive altrui. Per conferme, chiedere agli Oklahoma City Thunder, costretti a fare a meno del loro totem difensivo Serge Ibaka, il cui polpaccio sinistro non ha retto ai ritmi forsennati della Western Conference versione 2014.
La stagione regolare, nei quattro episodi della rivalità Spurs-Thunder, aveva impietosamente sentenziato: 4-0 per Durant e soci con i roster sempre (o quasi) al completo. Per dare un’idea del ruolo-chiave interpretato da Ibaka, ecco le portentose cifre messe insieme dal congolese naturalizzato spagnolo quando la sua strada e quella di San Antonio si sono incrociate: 14 punti, 11 rimbalzi e 4 stoppate di media.
Da un punto di vista strategico, defezione peggiore non poteva esistere per gli uomini in blu, privati dell’elemento che consentiva agli esterni di togliere il tiro da tre agli Spurs obbligandoli ad avvicinarsi al ferro dove, i tentacoli di Ibaka facevano il resto. Grazie alla sua abilità di presidio dell’area, alla sua verticalità e all’impressionante apertura alare che lo rende, in buona sostanza, il miglior difensore in aiuto della lega, Oklahoma era l’unica squadra della lega ad aver trovato l’antidoto al micidiale attacco texano, lo testimonia il fatto che, in stagione regolare, il fatturato offensivo degli Spurs si fermava a un deludente 96.8 punti di media. Ecco, nelle prime due gare playoff ne hanno infilati ben 117 di media. Dato sconcertante se ce n’è uno.
Il compito (ingrato) di Coach Brooks sarà quello di trovare soluzioni sullo scacchiere della serie, non tanto negli uomini quanto nelle scelte difensive. Il primo tentativo era stato spedire in quintetto il coraggioso Nick Collison, sublime difensore stanziale ma irretito dalla rapsodica circolazione di palla degli avversari, concedendo ampio minutaggio al roccioso Steven Adams, anche lui ottimo elemento ma tutto da costruire e inefficace nel dominare quell’area diventata oggi terreno di conquista. A rendere ancor più drammatico il quadro è l’assoluta incapacità dei rimpiazzi di mettere a referto punti e, dal momento che Ibaka era diventato tiratore affidabile dalla media distanza, questo significa che l’attacco è sorretto dai soli Westbrook e Durant, e in alcun modo può essere sufficiente. Risultato: due partite a senso unico.
Premesso che il suo dirimpettaio, quel genio del male che risponde al nome di Gregg Popovich, troverà il modo di punire ogni adeguamento, l’allenatore dei Thunder dovrà rinunciare a uno dei suoi specialisti difensivi per avere quintetti più equilibrati nelle due fasi, inserendo l’elettrico Reggie Jackson o al posto del pari ruolo Sefolosha, o in luogo di un lungo con conseguente impiego da ala grande di Kevin Durant, posto che, per quanto paradossale, l’unico modo per ovviare alle problematiche difensive è aumentare il tasso di pericolosità nella metà campo offensiva. Ne deriverebbero partite a ritmi quasi insostenibili e con un numero di possessi mai visto prima, che sarebbe anche il terreno più congeniale per San Antonio, ma è probabilmente la cosa che meno si aspettano.
Dal canto loro i texani sono consapevoli del fatto che se non si battono da soli hanno in tasca la seconda finale consecutiva, con il trio Duncan-Parker-Ginobili che gira a meraviglia, noncurante della legge del tempo, laureatosi dopo gara 2 come il più vincente nella storia dei playoff (111 successi quando hanno calcato insieme il parquet). L’ipotesi più lontana al mondo è che possano sentirsi appagati, l’encomio ( “uno o trino” che sia) viene sinceramente ignorato da uomini, prima che da giocatori, che mettono il sistema Spurs davanti a tutto, capeggiati da un Coach-Leader carismatico che ha speso gli ultimi 18 anni a indottrinare chiunque gravitasse nell’universo che ha contribuito a creare. Sfortunato non è, considerato che le sventure altrui gli hanno risolto una grana tattica tutt’altro che semplice, ma c’è da scommettere che la sfida lo solleticasse, e non poco.
La sfortuna dei Thunder inizia invece ad assumere i contorni di una maledizione, che colpisce ancora e lo fa scientemente. L’anno scorso toccò a Westbrook abdicare, proprio quando l’imprevedibilità del numero 0 doveva fungere da grimaldello per scardinare il solido fortino dei Memphis Grizzlies, in una serie che andava vinta in attacco. Adesso il trasferimento a Oklahoma City, nel catino della Chesapeake Energy Arena, in una sfida orientata ma lontana dall’esser decisa.

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